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Lo scopero degli invisibili

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Il testo di Abdoulaye Thiam  è una “satura” alla latina di tutte le vicende che possono accadere a dei migranti, specialmente se sono neri.
Si va dalla traversata del deserto  con il consueto incontro di  bande libiche che chiedono risarcimento alle famiglie d’origine, il solito viaggio nella barca stracolma, l’inevitabile naufragio.

Anche le esperienze fatte nel paese d’arrivo, in questo caso l’Italia,  sono del tutto simili a quanto è già stato scritto. La precarietà dell’alloggio, del vitto, lavori avventizi, l’entrare nella rete della mafia, ecc,.
E poi i soliti  amori, guarda caso con la figlia di un imprenditore, ma poi anche con altre donne più o meno sempre disponibili.
Più originale  è invece tutta la prima parte quando si narra delle esperienze dei cosiddetti “talibè”, sia perché si racconta di vero asservimento di ragazzi con il pretesto di educarli, sia perché riporta un po’ la consuetudine del mondo, forse, subsahariano di organizzare l’educazione dei fanciulli.

La modalità mi fa venire in mente quanto accadeva nel medioevo in Europa quando le famiglie bene spesso affidavano i loro figli ai chierici vaganti   per un inizio di istruzione e questi li utilizzavano perché chiedessero l’elemosina e raccogliere danaro per pagarsi le lezioni in Università.

L’altro fatto di merito di questa narrazione è dato dalla vicenda che accade a ciascun dei tre protagonisti. Solo uno di essi si salva, alla fine gli altri due muoiono in circostanze diverse, uno per incidente stradale ed un altro ammazzato dalla mafia.

Storie del pianeta veronetta

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Dopo oltre dieci anni Marina Sorina ritorna alla narrazione, questa volta non con un romanzo, ma con una serie di racconti. Il primo elemento, veicolato dallo stesso titolo dato alla raccolta, è la dimensione spaziale, uguale in tutti i racconti proposti e riferiti a Verona, città ove risiede. In questi racconti il narratore è sempre intradiegetico al fine di proporre un maggiore coinvolgimento del lettore che oltre alla storia presta attenzione al narratore e alle sue riflessioni.

Ma, più che per gli aspetti sopra elencati, questo testo della scrittrice di origine ucraina presenta spunti interessanti perché l’io narrante assume facce sempre diverse. Ora è una eterosessuale, ora invece è un omosessuale, ora è una donna, ora è un uomo. Il pregio della scrittura consiste proprio in questa capacità di assumere psicologie diverse e modi di pensare ora maschili, ora femminili, ora omosessuali ora lesbiche.

È l’amore il protagonista di questi racconti, in tutte le sue sfaccettature. E tuttavia, emerge un aspetto particolare e cioè la corporeità della domanda d’amore. Non è l’amore platonico, ove il fisico gioca un ruolo secondario, non è l’amore struggente, ma ideale, petrarchesco, tenderei a dire, ma è l’amore che esige il coinvolgimento del corpo, che sente il fascino fisico della persona che si ama o vorrebbe amare.  In special modo è la figura femminile ad avvertire questa necessità del contatto fisico e desiderare che si sia schiacciati dal peso corporeo dell’altro.  Le descrizioni d’amore sono sempre solo allusive e non scadono mai nella volgarità.

Le storie sono quelle che si possono verificare quotidianamente. Tradimenti e gelosie di persone che sembrano amarsi. L’amore, quindi non riesce mai ad essere esclusivo. Anche se si è madre in un rapporto felice con il proprio uomo, tuttavia può accadere che ci si lasci trasportare e desiderare fisicamente da un altro.   Proprio come è la vita, incerta, varia, sempre nuova, così la realtà dell’amore è sempre nuova, cangevole, variabile. Ci si incontra e ci si lascia. Serpeggia qua e là, però, la paura e il timore della solitudine, della impossibilità di trovare la persona con cui poter condurre avanti la vita, che, da soli, è molto più ingrata che se la si conduce insieme a qualche altra persona. Ma più che una solitudine spirituale quello che sembri manchi sia la solitudine corporale. Il corpo dell’uomo (maschio o femmina che sia) necessita di contatto con un altro corpo.

È da sottolineare come le narrazioni prospettano il superamento di pregiudizi di ogni genere da quello etnico-razzistico a quello di genere. Ma sembra che questa prospettiva sia ancora acerba e non produca completamente esiti positivi. Si prenda ad esempio l’ultimo racconto Una giornata quasi perfetta.  L’amore in questo caso sembra abbia la meglio sui pregiudizi. Un islamico che è innamorato di una ebrea è quanto di più difficile da superare. Ma anche la differenza di età si pone come problema. Lei di una quindicina d’anni più anziana di lui, che nella cultura popolare araba è alquanto anacronistico perché si accetta che l’uomo sia anche più grande e, a volte, molto più grande della ragazza o fanciulla; il contrario fa nascere sospetti e dubbi.  Ancora, nel racconto Ruslan, il protagonista Bruno, che aveva sognato per tutta la giornata di poter avere un approccio corporale con il turista russo Ruslan, alla fine, non riesce a dichiarare il suo desiderio e deve accontentarsi di un semplice abbraccio.

Infine, mi sembra importante segnalare quell’aspetto dei racconti di Marina Sorina che conferisce loro un tocco di poesia. Mi riferisco alla inconcludenza delle storie raccontate. Nessuna si conclude definitivamente, ma tutte lasciano il varco aperto a successivi avvenimenti, a successive riaperture delle storie. Si rimane da una parte delusi perché si vorrebbe sapere se il marocchino, personaggio dell’ultimo racconto, riescirà a contrapporsi alla sorella e a difendere il suo amore, si vorrebbe sapere se Asaf poi ritornerà con la possibilità di un’apertura di una storia d’amore con lui da parte della protagonista nel racconto La neve.

Tutti questi elementi fanno del testo di Marina Sorina qualcosa di avvincente che si legge con curiosità ed interesse.

 

 

La sponda oltre l'inferno

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I testi di Yunis Tawfik vertono su problemi sociali e politici e riguardano soprattutto la questione mediorientale e del nord africa, accentuando la riflessione narrativa su alcuni tragici avvenimenti che, in quel contesto geo politico, continuano a sorgere e perpetuarsi. Con la ragazza di piazza Tahrir veniva preso in esame il tentativo di rivoluzione avvenuto in Egitto nel lontano 2011 quando sembrava che tutto il mondo arabo, dopo il suicidio del tunisino Mohamed Bouaziz, ne potesse essere sconvolto. In questo romanzo è invece trattato un argomento che si trascina da anni e che sta riempiendo di cadaveri il Mediterraneo, e cioè il tentativo da parte dei “dannati della terra” di arrivare in Europa, Italia dapprima, attraverso la cosiddetta rotta mediterranea. Ormai se ne contano più di quarantamila e non pare che il numero sia destinato ad un incremento minore.

La storia viene incentrata sulla confessione di cinque naufraghi, fra cui una donna.  Un barcone si era rovesciato lasciando in mare decine di persone. In pochi si salvano e fra questi i cinque che si ritrovano a raccontare la loro storia. Provengono da paesi diversi, ma le cause che portano alla fuga dal loro paese è quasi sempre la stessa: la guerra e mancanza di prospettive.
L’altro dato che viene messo in evidenza è la durissima condizione che ciascuno di loro ha dovuto sopportare in Libia, vista come una prima meta da cui poter poi lanciarsi verso le sponde oltre l’inferno, perché la loro condizione prima di approdare a Lampedusa è solo e solamente inferno.
Non è però una raccolta di singoli racconti, ma è un romanzo a tutti gli effetti perché esiste un narratore unico, anche se tenue, che sorregge la trama narrativa.

La grandezza di questo testo, che si legge d’un sol battito di ciglia, sta nel saper tratteggiare con precisione e nel medesimo tempo delicatezza le violenze, le torture a cui sono sottoposti chi sta scappando e sta cercando di arrivare in Libia per il gran salto.

Sono le donne quelle che maggiormente vengono colpite nella carne e nello spirito, perché stuprate, violentate ripetutamente da singoli, da gruppi per tempi lunghissimi. È quello che accade a Siham, ad Halima, è quello che accade a Fnan.  Il mondo maschile sta diventando spietato. Non so se sia sempre stato così nella storia dell’umanità, ma sembrerebbe che sia il colpo di coda di un potere che, gli uomini sanno benissimo, sta venendo meno.

Il romanzo è anche capace di offrire uno sguardo storico, da saputo giornalista direi, perché la storia sugli avvenimenti della Libia, della Siria, del Darfur e di tanti altri paesi è ancora tutta da scrivere, tanto vicini sono i fatti, che Brodel definirebbe “avvenimenti”.  Forse si scoprirà che le guerre sono fatte ancora una volta per le più sordide ragioni economiche.

C’è un elemento del romanzo che mi lascia un po’ perplesso. Spesso si insiste sul rapporto quasi ossessivo fra questi sfuggiaschi, presi in esame mentre raccontano le loro vicende accadute, e la loro terra d’origine.
Il libico Hamid dice inizialmente “Guardare indietro e sospirare di rimpianto. Oppure sentirsi liberati? No, questo no, mai. Mai liberati dalla propria terra, con essa c’è un cordone ombelicale, eterno”. Espressioni simili sono in quasi tutti protagonisti di questo romanzo.  Il cordone ombelicale non può essere eterno, altrimenti non si diventa adulti. Si rimane attaccati alla propria madre, ma se non ci si distacca da lei non si cresce. Ma come questo avviene nella storia personale di ciascuno, lo stesso non può che essere nei confronti della propria terra d’origine. È necessario il processo di deterritorializzazione perché diversamente il passo è breve a considerare la propria cultura d’origine come la più alta ed intoccabile, con tutte le derive identitarie e sovraniste dei nostri giorni. Al migrante, dice Gezin Hajidari, non può che rimanere il proprio corpo, ed è per questo che egli diventa figlio di ogni territorio ove può contribuire  alla sua crescita alla sua storia.

 

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